Mi sono sempre chiesta
come mai le traduzioni italiane dei titoli dei film vadano, nella maggior parte
dei casi, a far perdere (se non addirittura a stravolgere) il senso del titolo
nella lingua originale. Questa è la domanda che mi sono posta, ancora una
volta, non appena è comparsa davanti ai miei occhi la spettacolare ripresa
dall’alto della foresta di Aokigahara…un mare di alberi (The sea of trees, appunto). Il dolce, quasi fiabesco, titolo
italiano non ha proprio nulla a che vedere con la sofferenza del protagonista,
palpabile già dalle primissime inquadrature, né tantomeno con la foresta (realmente
collocata ai piedi del Monte Fuji), tristemente nota come la “foresta dei
suicidi”. Un caso in Giappone, tanto che il governo nipponico, a fronte
dell’altissimo numero di persone che ogni anno vi si reca per porre fine alla
propria esistenza, ha fatto installare telecamere per controllare gli accessi,
istituendo vere e proprie squadre di ricerca e soccorso e cercando (spesso
invano) di dissuadere almeno qualche aspirante suicida mediante cartelli che
invitano a desistere dal drammatico gesto e a riconsiderare la bellezza della
vita.
Sicuramente a nulla
servono questi cartelli nel caso di Arthur Brennan, docente di fisica divorato
dai sensi di colpa e dal dolore per la perdita della moglie Joan. Dopo averli
letti, imbocca il sentiero di ingresso e comincia ad addentrarsi sempre più nel
fitto groviglio di alberi, portando con sé solo un flacone di pillole ed una
bottiglietta d’acqua. Proprio quando è ad un passo dal portare a termine il suo
scopo, compare, come dal nulla, il giapponese Takumi: debole, barcollante,
sporco di sangue e con i polsi inequivocabilmente tagliati…eppure così forte
nel proposito di voler uscire da quel luogo di dolore e di morte, per tornare
dalla sua famiglia. Qualcosa lega Takumi ad Arthur e soprattutto a Joan, qualcosa che sarà chiaro solo
nel finale...
Significativa la (solo
iniziale) contrapposizione tra il razionalismo occidentale dello scienziato
Arthur e la spiritualità orientale di Takumi, per il quale la foresta è un
luogo abitato dagli spiriti, un “purgatorio” nel quale le anime hanno la
possibilità di espiare le loro colpe per poi giungere alla redenzione
finale.
Man mano che, mediante
l’uso di flash-back a tratti un po’ improvvisati, Van Sant ci narra la storia
di Arthur e le vicende che lo hanno condotto ad un passo dal baratro, la
foresta perde sempre più l’atmosfera desolata ed inquietante dell’inizio.
Quegli alberi, costellati di cadaveri, scheletri, foto, disperati messaggi di
addio, diari, peluche, d’un tratto diventano meno spaventosi e sembrano
accogliere, e quasi abbracciare, il tormento del protagonista. Un uomo come
tanti, né migliore né peggiore di altri, nel quale ognuno di noi potrebbe per
qualche aspetto rivedersi, soprattutto quando, a seguito di un evento
particolarmente doloroso, ci troviamo a fare il punto sulla nostra vita…a
chiederci se le nostre scelte hanno avuto un senso, se siamo stati capaci di
capire e apprezzare le cose veramente importanti, dando valore ai sentimenti e
agli affetti prima che la vita ce li togliesse.
Una drammatica storia d’amore,
l’amore di un uomo e di una donna che, dopo anni di matrimonio, non riescono
più ad esprimersi il forte sentimento che ancora li lega, ma solo
l’insoddisfazione per un rapporto nel quale non si riconoscono più ed il
rancore per tutte quelle volte in cui, invece di tentare di comunicare, sono
stati solo capaci di farsi reciprocamente del male. Una coppia che riscopre la
complicità e la tenerezza solo quando ormai è troppo tardi.
Eppure “La foresta dei
sogni” non è un film di rassegnazione, di sconfitta e di morte, ma un film che
scava nell’animo del protagonista (e nel nostro), un percorso di consapevolezza
e rinascita. Un’intensa e profonda celebrazione dell’Amore e della Vita.